fbpx
Lavoro

Lavorare per vivere o vivere per lavorare?

Indubbiamente dobbiamo lavorare per poter vivere e per soddisfare i nostri bisogni sia di tipo primario sia di tipo secondario, quindi non legati solo ed esclusivamente alla sopravvivenza, perché caratterizzati da una forte componente psicologica. Tuttavia, occorre farsi una domanda: bisogna lavorare per vivere o vivere per lavorare?

In effetti, uno degli studi cardine in questo settore (seppur datato 1954) è stato fatto proprio da uno psicologo: Maslow (leggi la sua pagina wiki). Vediamo insieme cosa asseriva Maslow e come può esserci utile per capire il giusto posto che deve avere il lavoro all’interno della nostra vita.

La piramide dei bisogni di Maslow

Maslow, al decimo posto tra gli psicologi più citati del ventesimo secolo secondo il giornale scientifico The Review of General Psychology, è famoso per la “gerarchizzazione dei bisogni” meglio nota come la “piramide” dei bisogni. Intendendo per bisogno la mancanza totale o parziale di uno o più elementi che costituiscono il benessere della persona.

Questo concetto è definibile anche come stato di tensione causato dalla mancanza di qualcosa che risponde a esigenze fisiologiche (es. sete) o a esigenze psicologiche (es. affetto) o a esigenze sociali acquisite dall’ambiente (es. successo).

Individua cinque tipologie di bisogni:

  1. bisogni fisiologici;
  2. bisogni di sicurezza;
  3. bisogni di appartenenza;
  4. bisogni di riconoscimento e di stima;
  5. bisogni di autorealizzazione


Ciascuno di questi è presente anche nello svolgimento del nostro lavoro:

  1. bisogni fisiologici sono implicati nel carico di lavoro, nelle pause (es. pausa pranzo), nel welfare aziendale;
  2. La sicurezza si manifesta nella necessità di percepire l’ambiente di lavoro sicuro e nella presenza di norme e comportamenti in funzione di essa, nella valutazione dei rischi;
  3. bisogni di appartenenza sono evidenti nel gruppo di lavoro, nell’essere parte di un’organizzazione etc.;
  4. Il riconoscimento e la stima sono soddisfatti dagli incentivi di natura intrinseca (legati alla natura del compito, è il compito stesso a gratificare chi lo svolge) ed estrinseca (es. premi produzione)
  5. L’autorealizzazione consiste sia nella realizzazione professionale sia nell’equilibrio tra vita privata e vita professionale.

Chiaramente è necessario considerare la componente soggettiva ed i fattori ambientali del contesto da un punto di vista sistemico (quindi, a livello macro e micro). Infatti, ci sono stati diversi sviluppi della teoria di Maslow, tra cui la C.O.S.M.A..

La C.O.S.M.A.: definizione e applicazione

Si tratta di una rielaborazione della Piramide dei bisogni, elaborata da un ingegnere nel 2007 alla luce dell’impatto che la digitalizzazione della vita quotidiana ha avuto sulla determinazione dei nostri bisogni. Per tale ragione, i bisogni considerati sono quello di:

  • Connessione (corrispondente ai bisogni fisiologici);
  • Orientamento sensoriale (paragonato al bisogno di sicurezza);
  • Socialità (coincidente col bisogno di appartenenza e soddisfatto attraverso i i social networks);
  • Medialità (legato al bisogno di stima della piramide di Maslow);
  • Autocelebrazione (in rapporto diretto con l’autorealizzazione)

Se volete approfondire l’argomento, potete leggere qui l’articolo.

Perché riflettere sui bisogni, interrogandoci sul lavoro?

La risposta è semplice. Perché è fondamentale comprendere che lavoriamo non soltanto per “sbarcare il lunario” e che il nostro lavoro influisce su ogni sfera della nostra vita (ovviamente ne è anche influenzato). Per questa ragione è ancora più importante riflettere sul quesito vivere per lavorare o lavorare per vivere. 

Tale domanda non deve essere sottovalutata, perché approfondisce quello che è un aspetto centrale della vita di tutti i giorni. Naturalmente, la risposta non è universale. Ognuno può trovare la propria strada e dunque la propria risposta alla domanda.

Collegandosi a questo argomento poi, bisogna riflettere anche su un altro aspetto. Infatti, può valere la pena, rischiare e provare a cercare un’altra occupazione o modificare determinati aspetti della nostra attuale attività lavorativa, aspetto affrontato nel seguente articolo.

persone al lavoro che applaudono

Dal bisogno al significato del lavoro

Il lavoro ci permette di dare senso e significato alle nostre giornate e deve avere un significato per noi. È sempre un qualcosa che ci definisce come persone ed a livello identitario.

Facciamo fatica, tanta fatica ed abbiamo la sensazione di non reggere più? Siamo stanchi e demotivati? Ci alziamo il lunedì pregando che sia presto venerdì e che la giornata finisca presto?

 Stiamo andando nella direzione sbagliata, sbagliata per noi!

Il lavoro chiama sempre in causa noi in quanto persone con corpo e soprattutto mente, emozioni e relazioni.

Secondo uno studio di Harpaz (1990) le principali cause di insoddisfazione lavorativa sono:

  • un’assenza di significato nell’attività che si svolge (senso di inutilità);
  • avere obiettivi ripetitivi e privi di interesse (mancanza di stimolo);
  • assenza di gratificazione (il risultato non vale lo sforzo).

Questo studio è stato condotto su sette paesi differenti, tenendo conto dell’età dei lavoratori, dei tipi di impiego e della differenza di genere. Tra i primi fattori che devono essere presenti nel lavoro, ci sono proprio:

  • lo stimolo (l’opportunità di imparare nuove cose);
  • le relazioni interpersonali;
  • la gratificazione (intesa come possibilità di crescere professionalmente);
  • l’interesse (il lavoro deve essere interessante, deve avere un significato)

Il lavoro interessante si è dimostrato essere il fattore più rilevante perché presente a ugual livello in tutti i paesi presi in esame da Harpaz.

Ci troviamo in linea con questo studio? Abbiamo riscontrato che c’è un nesso tra questi fattori ed il modo in cui viviamo il nostro lavoro? Per quale motivo?

Che cosa è il lavoro?

Finora, non abbiamo definito cosa intendiamo con la parola lavoro né etimologicamente né psicologicamente, perché non ci serve per rispondere alla nostra domanda iniziale e non ci è utile riportare teorie psicologiche che ne spiegano la funzione (sebbene siano assolutamente degne di essere conosciute)

Può, invece, esserci utile, riflettere sui concetti di bisogno, sul significato che assume per noi la nostra professione, prendere in considerazione che:

“Il lavoro serve a vivere e ad organizzare una società e darle un equilibrio. I lavori servono invece a fare sopravvivere i singoli, a fare fronte alle necessità di quel momento. Il “lavoro” è come la specie umana ha deciso di denominare la lotta eterna per rimanere al mondo e dare un significato al ciclo vitale degli umani. I lavori all’opposto sono figli temporanei dell’epoca in cui si vive, del sistema culturale, delle credenze e dei paradigmi di un’epoca. […] I lavori finiscono per morte naturale, omicidio o sempre più spesso per suicidio. Il lavoro no. Quello non muore mai” (Zanolli,2018)

In conclusione: vivere per lavorare, ne vale davvero la pena?

Alla summenzionata considerazione si aggiunge che non potrebbe essere diversamente.

Per sottolineare come oltre al bisogno ed al significato ci sono altri elementi da valutare per rispondere alla domanda, si cita la definizione di lavoro data dalla fisica:

      “Il lavoro è energia trasferita ad un sistema ad un altro per mezzo di una forza. Se c’è energia trasferita dall’esterno verso il sistema è lavoro positivo. Se invece l’energia è trasferita dal sistema verso l’esterno è lavoro negativo”

Affascinante, non è vero? Sicuramente, dopo aver compreso il ruolo del lavoro nella nostra vita, potremo comprendere se possiamo continuare con il nostro percorso o se vale la pena apportare qualche modifica. Ricordando che, alla fine, a decidere se vale la pena vivere per lavorare o lavorare per vivere siamo sempre noi, con le nostre azioni e le nostre decisioni. 

Irene Saya

Psicologa del lavoro e del benessere nelle organizzazioni (n iscrizione Ordine Piemonte 9396) Inseguo la mia passione per il mondo HR “come fosse l’ultimo autobus della notte” (T. Guillemets). Sarà per questo che dalla Trinacria sono arrivata a Milano facendo tappa nella città della Mole e non conosco la mia prossima destinazione? Già! Dopo la laurea col massimo dei voti ottenuta con una tesi su un progetto di formazione innovativo in FCA, mi sono occupata di recruiting e di progettazione di interventi formativi in piccole aziende fatte da grandi persone che mi hanno arricchita umanamente e professionalmente, insegnandomi a cogliere la bellezza collaterale degli imprevisti. Adesso sono una recruiter di profili IT. Il mio motto è: “Ci saranno sempre pietre sulla strada davanti a noi. Saranno ostacoli o trampolini di lancio; tutto dipende da come le usiamo” (Friedrich Nietzsche).

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Pulsante per tornare all'inizio