Non sentiamoci un disastro: il lavoro e la quarantena

La quarantena ci ha chiusi nelle nostre case. Ci ha chiusi con noi o con qualcun altro con cui in un modo o nell’altro abbiamo dovuto fare i conti. Prima che con gli altri, ci ha chiusi con noi stessi. Ci ha messo di fronte, appunto, a noi stessi.
Non parlo solo di coloro che sono rimasti a casa dal lavoro, o quelli che lavorano in smart working, parlo anche di chi a lavorare ci è andato e ci sta andando.
Tutti noi lavoratori in qualche modo ci siamo trovati a fare i conti la nostra solitudine, portando avanti il nostro lavoro o quello che rimane di lui, con addosso preoccupazioni e responsabilità.
Quante cose non abbiamo detto in questi mesi per paura di essere giudicati? Quante cose abbiamo pensato che non si possono dire?
Non voler andare a lavorare per paura, il sentirsi in colpa perché si lavora da casa, la rabbia per la cattiva gestione aziendale, il dolore perchè qualcosa di brutto sta accadendo sotto il nostro naso mentre ci chiedono di andare a lavorare come se niente fosse.
E a quanti è esplosa l’adrenalina?
È arrivata la voglia di fare, anche di più del dovuto, la voglia di mettersi in gioco, di non arrendersi e dare il meglio sul posto di lavoro.
Attenzione all’adrenalina: quando scende in picchiata lascia le sue macerie.
Tra emozioni positive e negative, pensieri più o meno accettabili, ci siamo trovati ad affrontare una situazione lavorativa completamente nuova. Ognuno afflitto nell’individualismo, preso dall’urgenza, a volte dalla paura, altre dalla noia.
Sì, avete capito bene: siamo diventati un po’ individualisti. Non siamo brutte persone, siamo persone umane e in un momento di emergenza miriamo semplicemente alla nostra salvaguardia e l’individualismo ne è una sfumatura.
Chi aveva un team non sa più di averlo o fa fatica a considerarlo il team di una volta, perché manca la battuta nel cambio turno, manca la pausa caffè e mancano anche le litigate. E anche perché, diciamocelo, alcuni pensieri indicibili non si possono condividere con il collega durante una video call e nello spogliatoio con la mascherina a più di un metro di distanza.
Tuttavia i più fortunati tra noi sanno ancora di un avere un gruppo di lavoro e lo ritroveranno, forse più unito di prima.
Qualcuno di noi, invece, a questo punto dell’articolo si starà chiedendo: ma quale gruppo? Di cosa faccio parte? C’è qualcosa al di sopra di me a cui sento di appartenere ogni volta che timbro il cartellino o accendo il pc? Perché lo faccio?
Prima, presi dalla routine e dal fare, non ci siamo mai fatti queste domande.
In questa emergenza la solitudine ha fatto irruzione: ci ha fatto sentire soli e parte di un niente. Non sentiamoci un disastro: credo che da qui si possa trarre qualcosa. Diamo ascolto alle domande che ci frullano in testa, cerchiamo le nostre risposte.
E forse a un certo punto arriverà la domanda finale: voglio davvero lavorare qui? Voglio continuare a fare questo?
A voi la risposta!