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Risorse Umane

Age Management: quando l’esperienza crea innovazione

Per introdurre il tema dell’Age Management è necessario che ci poniamo una domanda: quante volte ci capita di avere il bisogno di confrontarci con gente più matura circa un nostro problema o ostacolo? Perché siamo spinti a vedere i più “senior” come delle guide? Ovviamente la risposta è soggettiva, ma sicuramente un minimo comune denominatore è la possibilità di avere una visione globale oggettiva più “matura” che, spesso, fatichiamo a realizzare quando siamo coinvolti in prima persona.

Cos’è l’Age Management

Adottare questa strategia nel contesto lavorativo può essere vincente in momenti ardui. Dunque, visto sotto questa luce sicuramente l’age management si può considerare come una branca importante del Diversity Management.  Si utilizza questo costrutto per far riferimento alla serie di interventi e risposte che possono essere date a livello aziendale con l’obiettivo di valorizzare, riconoscere e utilizzare i punti di forza di tutti i lavoratori a prescindere dall’età anagrafica.

Nel 1998, Walker e Taylor nell’analizzare tale identificano come i fattori importanti per la buona riuscita di un intervento di Age Management siano il supporto dei manager senior dell’organizzazione, un ambiente HR di tipo supportivo, il coinvolgimento ed il commitment da parte dei lavoratori ageing coinvolti e citare questi studi permette di capire come il confronto e l’ascolto attivo e empatico possa essere una risorsa.

Animata dall’intento di verificare in prima persona la validità di questi costrutto, ho il piacere di riportare alcune considerazioni nate da un confronto diretto due figure “senior”, appartenenti alla generazione “baby boomers”, ossia coloro nati dal 1946 al 1964 (definizione ripresa da un report Istat 2018 e Eurostat 2018 per gli occupati, realizzato tramite generazione dati di Generation Mover). 

Con loro mi sono confrontata su una situazione challenging che, secondo la nostra visione millenials, può essere tranquillamente considerata come il cambiamento “disruptive” per antonomasia, l’automazione.

L’intervista

Premetto che dalle loro parole, è emerso come in molti settori fosse semplice il passaggio dallo studio al lavoro, come ci fosse più aderenza tra le nozioni più pratiche imparate a scuola e le mansioni da ricoprire: insomma, parafrasando le loro parole, potrei dire che chi si era preparato bene sui banchi, aveva più facilità a progredire di carriera. Fin dal primo giorno di lavoro, la risorsa doveva assumersi le sue responsabilità e pian piano, con tanto olio di gomito, diventava sempre più competente nella propria mansione ma, soprattutto, assumeva una visione completa superando la verticalità e specificità del proprio ruolo.

La visione globale che permetteva di essere competitivi e vincenti si assumeva più che altro in una modalità di learning by doing dal momento che la formazione, prima degli anni 80, veniva fatta principalmente dai dirigenti più preparati ed era a carattere prettamente tecnico e verticale in organizzazioni in cui la struttura aziendale era fortemente gerarchica. La formazione a carattere trasversale, in contesti molto limitati e specifici, è iniziata solo negli anni 80: venivano ingaggiati professori esterni che, grazie alle loro lezioni, ampliavano il campo, analizzando sia le specificità tecniche sia portando esperienze esterne di altri settori e, poi, con l’avvento dei personal computer si iniziò anche a fare corsi più finalizzati, 

signore che discute con due giovani colleghe

Alla mia domanda diretta “come avete affrontato questo grande cambiamento”, i miei due testimonals hanno spiegato che non è corretto considerare un cambiamento come sconvolgente o viverlo come una potenziale fonte di paura e preoccupazione, loro, infatti, erano pronti: avevano sempre lavorato con impegno, utilizzando la loro inventiva e cercando di assimilare il più possibile anche se fuori dai loro ruoli (e senza aree di Formazione e Sviluppo, come detto sopra, sviluppate come lo sono oggi). Solo assumendo una visione completa, sono riusciti a rapportarsi e lavorare in sinergia con i primi informatici e si è dimostrato un dare e avere da ambe le parti. Dunque, essere preparati e competenti ha consentito loro di avere tutte le informazioni e, soprattutto, la consapevolezza per innovare.  

Le conclusioni

Da queste parole ho trovato conferma della famosa “tesi positiva” di Butera, studioso di organizzazione e architetto di organizzazioni complesse. Butera analizza la lettura scientifica in merito all’automazione e effettua una sintesi di quelle che furono le due principali reazioni a questo cambiamento così importante, definendo le teorie con due aggettivi: pessimistica, improntata su un modo di vedere secondo il quale l’automazione  e le nuove tecnologie fossero causa di disoccupazione e ci fosse un gap incolmabile tra pochi lavoratori superqualificati e molti altri no (alias taylorismo tecnologico). Poi, la tesi ottimistica, che, al contrario, interpreta l’automazione come una risorsa utile per evitare di svolgere lavori pesanti, eccessivamente lunghi e routinari ottimizzando e, di conseguenza, innovando il modus operandi e qualificando i lavoratori.

Tirando le somme del mio incontro-intervista, mi ha motivato e mi ha permesso di capire come il lavoro sia fonte continua di dignità, è importante venga fatto con amore e serietà senza demordere e perdere l’entusiasmo anche nelle mansioni più utili e routinarie. Per concludere con una loro citazione

Se ti impegni, lavori bene sennò quello che farai non vale nulla, piccolo o grande che sia”

Diana Musacchio

Da dottoressa in Psicologia del Lavoro, affermo che valorizzare il capitale umano e aiutare il singolo a esprimere al meglio il proprio potenziale sia la cosa più bella e importante che io possa fare con gli strumenti che ho a disposizione. Credo fortemente nella formazione continua per rispondere con efficacia e tempismo ai cambiamenti che caratterizzano il mondo del lavoro. Sono una recruiter e cerco sempre di selezionare il candidato più in linea sia dal punto di vista hard che soft con la posizione, orientandolo e delineando con lui il suo progetto professionale. Ho lavorato in una onlus che, tramite career centre, aiuta le donne a mappare le proprie competenze, le guida nelle ricerca attiva del lavoro più in linea con il loro background e le accompagna durante le fasi selettive con un programma di mentoring. Mi considero una persona proattiva ed esuberante, fare il lavoro che amo mi aiuta a canalizzare l'energia in modo positivo, avendo sempre nuovi stimoli e cercando di cogliere anche le opportunità che si creano confrontandosi con gli altri. D'altronde come dice Henry Ford "Con l'entusiasmo ci sono le realizzazioni, senza solo alibi".

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