Diversity Management: mondo aziendale, DSA e lavoro

Coco Chanel affermava che “per essere insostituibili bisogna essere diversi”. È da questa e molte altre frasi sulla diversità che probabilmente hanno preso ispirazione IBM e più recentemente Intesa San Paolo nell’intraprendere una campagna di sensibilizzazione a favore della identificazione e valorizzazione dei talenti affetti da questo disturbo neuropsicologico. Evitare stereotipi e categorizzazioni quando si parla di DSA e lavoro è infatti una strategia ideale per la valorizzazione del singolo e dell’organizzazione.
I DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) vengono descritti all’interno del DSM V come difficoltà nell’apprendimento e nell’uso di abilità scolastiche. La loro prevalenza nella popolazione di età evolutiva per la lingua italiana è stata stimata tra il 2,5 e il 3,5 %.
L’eziologia di tali disturbi, seppure esista un ampio consenso in letteratura sul fatto che sia associato ad alterazioni neurologiche interagenti con fattori ambientali, non è chiara e non esiste un modello di causalità approvato dalla comunità scientifica, forse per le caratteristiche stesse del disturbo e cioè elevata complessità ed espressione multiforme.
DSA e lavoro
Ma cosa comporta la diagnosi di tali disturbi a livello individuale ed in relazione a carriera lavorativa e mondo aziendale?
Il vecchio stereotipo per cui si pensa che i DSA rappresentino una qualche forma di disabilità si sta combattendo e ciò che è addirittura emerso è che si dovrebbe monitorare il rischio di cadere in una trappola completamente opposta, che porti cioè alla diffusione di uno stigma di genialità diffusa tra questi individui.
A partire dal coming out di diversi manager e imprenditori famosi (per citarne alcuni, Ingvar Kampard di Ikea, Steve Jobs di Apple, Ted Turner di Cnn e Cath Kidston di C. Kidston Limited) e con la pubblicazione del libro “Il dono della dislessia” di Ronald D. Davis, è sempre più urgente il raggiungimento di chiarezza in merito al tema, per evitare nel contesto aziendale e non la diffusione di ostilità e la riduzione delle possibilità lavorative, senza però contemporaneamente diffondere falsi miti.
DSA tra mito e realtà
Ciò che va chiarito in primo luogo è che quando un clinico si trova a fare diagnosi di DSA, affianca a questa delle specificazioni rispetto alla gravità del disturbo, riferendosi a un continuum che va da lieve a moderato fino a grave. Questa specificazione, richiesta dal DSM V, è necessaria quanto importante perché le difficoltà così come le performance e le storie di successo/insuccesso lavorativo di ciascun individuo sembrano differenziarsi fortemente in base a questo. E’ infatti vero che non tutti i soggetti che ricevono diagnosi di DSA mostrano gravi difficoltà nei contesti lavorativi. Seppure manifestino delle difficoltà nell’apprendere la letto-scrittura e relative alla memoria di lavoro, dimostrando quindi un concreto ostacolo ad accumulare conoscenze per poi rievocarle opportunamente di fronte a dei compiti, mostrerebbero quello che è stato definito “the dyslexic advantage”, di cui si approfondirà più tardi.

Ad accreditare la tesi per cui le difficoltà lavorative potrebbero non comparire in tutte le persone a cui è stata fatta diagnosi di DSA, si aggiungono degli studi condotti in relazione all’evoluzione di tali disturbi in età adulta. Esisterebbero infatti conferme del fatto che i deficit neuropsicologici tipici del disturbo permangano anche in età adultà ma che, allo stesso tempo, una stessa difficoltà non è detto che impatti nel medesimo modo sulla prognosi scolastico-lavorativa, pregiudicando quindi la carriera.
DSA e abilità particolari
Come si era accennato sopra, il “dyslexic advantage” è un costrutto sempre più indagato e molte altre ricerche hanno dimostrato una elevata frequenza di alcune abilità lavorative tra i soggetti con diagnosi di DSA. In particolare, i dislessici appaiono talentuosi in processi di percezione e ragionamento visuo-spaziale, abili nella gestione di difficoltà e nella risoluzione di problemi relazionali. Sembrano inoltre particolarmente empatici, intuitivi e creativi, ma anche ambiziosi e fortemente motivati. Per questi e molti altri motivi, le aziende dovrebbero accettare la sfida e coinvolgersi in quello che è definito come Diversity management.
Diversity Management: la sfida per DSA e lavoro
Mentre la gestione degli individui con DSA è regolamentata dalla legge n° 170 del 2010, non esistono nel mondo aziendale delle misure corrispettive. E’ per questo che nel 2017 è nata, grazie alla collaborazione di Lavoro&Welfare e la Fondazione Italiana Dislessia, una proposta di legge per estendere quanto stabilito dalla normativa per la scuola al mondo lavorativo.
In linea generale ecco ciò che si dovrebbe fare per chi è affetto da queste difficoltà. Bisognerebbe lavorare in vista di un miglioramento sia del clima organizzativo e delle condizioni lavorative. Ma anche per l’ottenimento di una strategia che valorizzi i talenti colpiti da questa categoria di disturbi.
Aziende DSA Friendly
Favorire un ambiente di lavoro definito “dyslexia friendly” permette non solo di ridurre le difficoltà e favorire le strategie di compensazione, ma anche di rendere il processo di emersione del potenziale e dei talenti appartenenti a persone con DSA più agevole. Tra le prime aziende a ricevere la certificazione di “Dyslexia Friendly Company” da parte della FDI, annoveriamo IBM, Micron, Axia e per ultima Intesa San Paolo.
Più da vicino, un’azienda “dyslexia friendly” adotta quelle premure necessarie a favorire il processo di compensazione nei suoi dipendenti DSA aderendo a programmi di sensibilizzazione sul tema o utilizzando tecnologie facilitanti. Nel 2015 ha preso vita un progetto in cui si introduceva il cosiddetto dyslexic-oriented font e cioè un insieme di caratteri tipografici caratterizzati da uno stile grafico progettato appositamente per incrementare le performance degli individui dislessici.
L’adozione di queste e molte altre strategie per gestire DSA e lavoro, possono rivelarsi fondamentali all’interno del contesto aziendale anche in termini di motivazione. Se infatti il lavoratore invece di sperimentare emozioni negative legate alla stigmatizzazione quali helplessness e umiliazione, vive in un clima positivo che garantisce la possibilità di consapevolezza e padronanza del suo disturbo, allora sarà più motivato e agevolato nel raggiungimento degli obiettivi aziendali.
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