Il male del remoteworking

La novità di questo periodo, quel nuovo modo di intendere il lavoro e che ci ha colpito tutti, è lo smartworking. Partiamo subito da un presupposto fondamentale: quello che è stato fatto in questo periodo di quarantena data dal covid non è propriamente smartworking ma remoteworking. La differenza tra i due è presto detta: il primo implica un impegno lavorativo svolto a casa per un certo numero di giorni prestabilito dal ccnl al quale ci si riferisce per il proprio contratto, mentre il secondo è una modalità di lavoro più lunga che può essere svolta a casa, che a volte può durare delle settimane, come nel nostro caso. L’utilizzo del termine smartworking è diventato di dominio pubblico grazie ( o a causa ) alle varie dirette televisive che lo hanno imposto, non spiegandone mai il vero significato. Per dovere di chiarezza, in questo articolo, useremo il termine corretto che si rifà proprio a questo ambito, ossia remoteworking.
Non finirò mai di ripeterlo, questo non è smartworking perché “alla base del lavoro agile c’è la libertà. Libertà di scegliere di lavorare nelle modalità, tempi e posti più funzionali al raggiungimento degli obiettivi. Quindi l’imposizione forzosa e prolungata ne snatura l’essenza” afferma Alessio Vaccarezza, C.E.O di Methodos.
Per approfondire meglio questi e altri concetti di questo tipo, vi invito a leggere l’articolo che trovate linkato qui.
Da diverso tempo è prassi sentire persone che decantano le meraviglie del remoteworking. Lavorare a casa è sicuramente un vantaggio per diverse motivazioni, come ad esempio quella economica e sopratutto quella ambientale. Ma è davvero corretto pensare che il remoteworking sia tanto vantaggioso? Ed è un bene che tutti quelli che lo hanno provato non vogliano più tornare indietro? Analizziamo insieme alcuni punti che provano il fatto che questa nuova modalità di lavoro non è tutta rosa e fiori come sembra:
- Mancanza di socialità: la prima cosa che viene a mancare per un eccessivo uno del remoteworking è la socialità. Esperienza fondamentale per l’essere umano, questa si sviluppa anche all’interno dell’ambito lavorativo e la percezione della sua mancanza porta il lavoratore a classificare se stesso, in maniera consapevole o meno, come un mero produttore di valore economico e non come una persona che può partecipare al processo produttivo. Certo, ad ovviare a questo problema ci sono i vari tool di comunicazione a distanza, ma questi non risolvono il problema. Stare fisicamente con i colleghi, fare una pausa caffè insieme, chiacchierare di fatti avulsi dal lavoro, stimola quello che possiamo definire “effetto ricreazione” che porta benefici positivi al lavoratore stesso, che non percepisce il posto di lavoro come uno spazio atto solo a produrre, ma anche come luogo di socialità secondaria;
- Separazione della vita personale da quella professionale: vengono a mancare gli obbligatori confini geografici e temporali tra lavoro e vita privata. Se la casa diventa anche l’ufficio, allora in maniera percettiva non si riesce più a riconoscerne la differenza, portando le persone ad un perenne stato di confusione. Se sono sempre in remoteworking allora sono sempre un impiegato. Se sono sempre connesso e non ho (oppure ho poco) diritto alla disconnesione, quando torno ad essere una persona, e non un lavoratore? Se ricevo una mail e sono al di fuori delle canoniche 8 ore di lavoro, la guardo oppure no?
- Mancanza di attenzione al benessere fisico: gli uffici sono costruiti apposta per gestire anche il benessere fisico dei dipendenti. Le postazioni, le sedute, le posizioni delle finestre ecc sono tutte scelte accuratamente per mantenere al minimo il rischio di malessere per i lavoratori. Nelle proprie abitazioni questo succede molto raramente, tanto che i casi di malessere fisico legati al massivo utilizzo del remoteworking sono esponenzialmente aumentati.
- Procrastinazione: se da una parte si pensa che questa nuova modalità ha permesso l’aumentodella produttività per alcuni tipi di lavoro, per altri invece ha visto un grande aumento del“lo faccio dopo, tanto ho tempo”.
- Dopo emergenza: uno dei punti più controversi di tutti. Dopo aver provato l’illusione dellacomodità da remoteworking, le persone non lo vogliono più abbandonare. La conseguenza è che non è stata teorizzata dalle persone una strategia di sviluppo di carriera per il dopo emergenza. Adesso il principale desiderio è lavorare da casa sempre, ma questo non da sempre la possibilità di una crescita professionale. Molte delle responsabilità legate ad una posizione lavorativa possono essere svolte solo in un luogo adatto, come in un ufficio. Se si pone come unico obiettivo quello di lavorare da casa, è molto complesso che alcune posizioni lavorative possano avere un’evoluzione. E questo non perché non lo si voglia fare, ma per il semplice fatto che ancora l’Italia non possiede tecnologie e regole adatte allo scopo.

Questi cinque si diramano poi in altri e diversi sotto punti che analizzeremo successivamente, ma che hanno comunque lo scopo di segnalare il fatto che la deificazione di questa nuova modalità di lavoro è sbagliata.
É certamente vero che è un’ottima cosa per l’ambiente, ma lo spostamento dei lavoratori in una fase di vita non pandemica, in modo che abbia un basso impatto per l’ambiente, è una cosa facilmente attuabile. Le aziende possono organizzare trasporti comuni, sponsorizzare con bonus l’utilizzo delle auto condivise per i colleghi di simili reparti che abitano vicini, spingere verso il trasporto green.
Le possibilità di un ritorno a lavoro negli spazi appositamente studiati per questo sono fattibili e sono moltissime. L’unica cosa che bisogna cominciare a fare e ragionare su cosa il remoteworking toglie, e non su cosa dona.
Un commento